Contratti, parte la dismissione

10.06.2008 14:22

 

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 10/06/2008

Al via il tavolo sulla riforma del modello contrattuale. L'unità sindacale traballa sotto il peso della convergenza tra imprese e governo. Che vogliono di tutto di più

C'è chi spera - in molti e per ragioni anche diverse - in un altro 23 luglio. Il terzo, dopo il '93 (quando fu partorito l'attuale modello contrattuale), e il 2007 (quando è stata sottoscritta l'intesa su pensioni e welfare). Anche perchè sulla riforma degli assetti contrattuali - su cui si apre oggi la trattativa tra sindacati confederali e imprese - incombe minacciosa l'ipoteca del nuovo governo che, per un verso (il ministero della Funzione pubblica, capitanato da Renato Brunetta) è parte diretta in causa e come tale si sta muovendo, per l'altro (il ministero del Lavoro guidato da Maurizio Sacconi) è «spettatore molto attento per ora» pronto a intervenire con provvedimenti del calibro di quelli annunciati nei giorni scorsi alla platea dei 'giovani industriali'. Un affollamento di protagonisti intorno ad un unico tavolo, che vede una straordinaria convergenza d'intenti, e di interessi, tra governo e imprese. Dove altro vuole andare a parare la presunta fine del rapporto conflittuale tra capitale e lavoro, assunta con ossessione ideologica (altrochè post) anche da Cisl e Uil, se non nella direzione di un progressivo prosciugamento degli spazi della contrattazione collettiva? E quale potrà essere l'effetto indotto da uno spostamento del baricentro della contrattazione sul livello aziendale (e contestuale restringimento del contratto nazionale), qualora a questo si accompagni un corposo incentivo del governo all'individualizzazione dei rapporti di lavoro? Una cosa è certa: la riforma riguarda almeno 17 milioni di lavoratori dipendenti e deciderà delle politiche salariali (e non solo) per almeno il prossimo quindicennio.
I sindacati si presentano alla trattativa con un documento unitario, in cui si riscrive l'articolazione del modello contrattuale - contratti triennali e un unico modello per il pubblico e per il privato - e si definiscono le nuove regole su democrazia e rappresentanza. Il contratto nazionale, nel documento di Cgil, Cisl e Uil, dovrà continuare a garantire il potere d'acquisto (recuperando, con la revisione degli indici, l'inflazione reale e non più quella programmata, ma sul punto Confindustria è contraria), mentre la contrattazione di secondo livello, a cui è affidato il compito di «accrescere» il potere d'acquisto, dovrà potersi dispiegare in una molteplicità di forme (contratti aziendali, territoriali, di distretto, filiera e via dicendo). Un «minimo salariale», contrattato a livello nazionale e valido per tutti, dunque, e la contrattazione decentrata per aumentare il potere d'acquisto. Il contratto nazionale, come disegnato dagli accordi del luglio '93, non è riuscito a garantire la minima tenuta del potere d'acquisto, e questo è sotto gli occhi di tutti (proprio tutti); la contrattazione di secondo livello, d'altra parte, è attualmente cosa per pochi intimi (riguarda appena il 30% delle imprese, il 70% circa dei lavoratori).
Che la forza del sindacato si giochi sulla presenza nel luogo di lavoro, è la stessa storia sindacale a dimostrarlo. Ma il tessuto produttivo italiano è innervato (quasi all'80%) di piccole e piccolissime imprese, dove il sindacato non c'è: a questo punta - risponde la Cgil alle voci critiche - una contrattazione decentrata che dovrebbe potersi dispiegare in una molteplicità di forme. Non fosse che nel vertice di Bergamo Confindustria ha definito le proprie linee guida e, guarda caso, la contrattazione di secondo livello viene declinata esclusivamente come «aziendale» (con i salari legati ai parametri di produttività), e naturalmente «facoltativa». Contratti territoriali, di sito, distretto o filiera non sono ammessi, e laddove lo fossero, «sarebbero alternativi al contratto nazionale». In altre parole, ha spiegato limpidamente il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei, va ridotto il peso del contratto nazionale per lasciare alla buona volontà delle imprese (auguri) quello dei contratti decentrati. Pesa come un macigno, nel mondo imprenditoriale, la componente dell'industria metalmeccanica perchè - è l'osservazione frequente - ci sono interi settori, dall'edilizia all'agricoltura fino all'artigianato dove la contrattazione territoriale è la norma e non l'eccezione. Non a caso il contratto dei metalmeccanici viene assunto come «il» contratto per definizione. E per converso, forse non per caso i metalmeccanici della Fiom, che conoscono bene lo stato dell'arte oltrechè la posta in gioco, si sono espressi al 75% per il no all'ipotesi di riforma disegnata dalle tre confederazioni.
Questa, in estrema sintesi, la partita che si gioca al tavolo della trattativa. A cui va aggiunta l'incalzante, e ingombrante, azione dei ministeri interessati (Lavoro e Pubblica amministrazione). Sono bastate le prime misure varate dal governo (detassazione, in via sperimentale, degli straordinari e delle parti variabili del salario, quelle contrattate e quelle elargite unilateralmente dalle aziende), a cui si è aggiunto l'annuncio di una «chirurgica deregulation del mercato del lavoro», per fare emergere le crepe di un'unità sindacale con cui il maggiore dei sindacati (la Cgil) punta ad arginare l'offensiva governativa. Cisl e Uil hanno di fatto gradito, quando non applaudito, i provvedimenti e non hanno battuto ciglio (se non per rilevare, a bassa voce, alcuni problemi di metodo) di fronte alle parole pronunciate da Sacconi davanti agli industriali. Sacconi ha per parte sua promesso che, a sperimentazione verificata, intende farne la regola per tutto il lavoro dipendente. Di più: alcuni dei provvedimenti del capitolo «deregolazione del mercato del lavoro» potrebbero vedere la luce già il 18 giugno, insieme al provvedimento che accompagnerà la presentazione del Dpef. E non è neppure che, sul fronte salariale, il ministro si mostri molto sensibile alla «piattaforma fiscale» elaborata sei mesi fa da Cgil, Cisl e Uil (detrazioni sui redditi da lavoro dipendente), su cui molto punta il sindacato di corso d'Italia: Sacconi vuole incentivare le parti variabili del salario, legate alla produttività, e quindi «aspetta di vedere quanta parte di questo verrà intercettata dalla contrattazione collettiva».
Ai posti di partenza, queste le posizioni. La segreteria Cgil, riunita ieri, si è chiusa con l'auspicio di «tempi certi alle conclusioni del confronto», e con il dito puntato contro le dichiarazioni del ministro del Lavoro: «C'è un attacco all'accordo sul welfare, un intrusione nelle relazioni sindacali, e una visione ideologica improntata a indebolire i soggetti collettivi a favore di rapporti individuali». La Cisl, che non ha gradito le critiche di Epifani al governo, punta a proporsi come «fattore di convergenza» (che è tutto dire) nel negoziato che inizia oggi. La Uil invita a «non avere paura del nuovo». Intanto anche il ministro Brunetta lavora di gran lena per fare piazza pulita, fin dove è possibile, della contrattazione. Oggi i sindacati del pubblico impiego si incontrano nel tentativo di mettere a punto una «contro proposta» da presentare, mercoledì, al tavolo ministeriale.

 

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